La sera scendeva rapidamente sorprendendoci in quella periferia invecchiata e polverosa. Il vento mugghiava e alzava carte davanti a case malinconiche. L’evento era anonimo per non dire opprimente. Nel fondo delle strade il buio arrivava in anticipo. Anche nel cielo blu morivano i colori ed il loro buio si confondeva con quello dello spazio urbano lungo largo e squallido. La periferia come il centro non si riconosceva più. Va a finire che nevica! Quel chiamarsi cupo nella notte o alle gelide luci dell’alba, quel borbottare di voci leggere in lontananza e il breve fruscio di qualche macchina sulle strade deserte e appena innevate davanti alla villa erano presenze che appartenevano più all’ordine della fantasia che al volto della realtà. Era un microcosmo vivace, una piccola società con i propri modi di esprimersi. C’era un’incontrollata forza vitale, un bisogno di colorire le nostre giornate di lavoro o di compiti troppo lunghe e troppo eguali. Ma come è questo benedetto smart working? Normale. C’è di peggio certo. Ad esempio essere medici o infermieri alle prese con la moltitudine di contagiati e di deceduti. Qualcuno l’avrà sicuramente detto che il “coronanevis” Lattanzio dixit ci ha preso la dura e non sempre allegra normalità. Ci siamo alzati una mattina e non c’era più. Come se ci avessero rubato e portato via qualcosa a cui eravamo affezionati. Era la nostra vita in equilibrio più o meno precario come diceva il grande Roberto Ciotti. Ora siamo spaesati, tremanti e rifuggiamo tutti. Ma quantomeno vivi di un’esistenza che per tutti è poco smart e quasi è poco working.Rivivere noi stessi è una speranza, e riuscirci è una fortuna. C’è chi ha tramutato la propria realtà passata in un mito e se prova a ricercarlo si perde. Gli uomini temono il loro avvenire, ma è del passato che devono aver paura. Se non lo sanno ritrovare in tutta la sua realtà non trovano se stessi, e il loro avvenire è l’incognito. Spesso succede così. Quando anche le opere della natura non reggono, quelle degli uomini devono essere labili come un sospiro dell’aria, ma la cosa è maledettamente complicata. E’ davvero l’eternità che si sta sciupando. C’è di che rimanere in silenzio, un silenzio ovattato che deriva dalle nostre suggestioni ritrovate che sentiamo come un aroma nel cuore del nostro paese o della nostra città che ci ha formati come se fossimo tornati nelle calde e protettive acque della placenta materna. Adesso qui è quasi uguale, solo che c’è la neve oltre il parcheggio e molto vento. “Qui sappiamo così poco e ognuno si taglia con i suoi ricordi” chiosò il maestro Mura. Si fece un silenzio di tomba per tutto il cielo. Nell’aria si era come prodotto un vuoto che si ascoltava. Da quel dì la vita sembrò aver subito un trauma, ma qualcosa era mutato. La nostra cellula di mondo aveva subito una inconsueta intrusione. Camminando e chiacchierando avevo fatto tardi sopraffatto nel cercare inconsapevolmente le forme di un passato che tardava a tornare per rigenerarmi come se un suggerimento del vivere di cui avevamo bisogno fosse soltanto in esso. Ma se sembra impossibile allora si può fare chiosò Bebe Vio. #Andràtuttobene#.
TIKRIT65