RICORDO D’INFANZIA
RICORDO D’INFANZIA
A metà degli anni 50, già dalla 2^ elementare andavo a scuola da solo. Abitavamo a Pescara in una casa a due piani sulla Nazionale Adriatica realizzata a mattoni faccia vista che resiste ancora inalterata, ora divenuta quasi unica con quelle facciate esterne – essendo le altre costruite in quegli anni scomparse perché cancellate dalle ristrutturazioni o dall’abbattimento per nuove edificazioni – e dove attualmente rinnovata negli interni abita mio fratello.
Accanto al recinto davanti casa c’era la ferrovia della FEA su cui transitava il trenino che collegava Penne a Pescara con i binari che si interponevano con la strada statale: un lungo e velocissimo rettilineo che correva dalla Stazione ferroviaria di Montesilvano fino al passaggio a livello di Pescara Centrale, a cui ricordo sono stati pagati pesanti tributi in termini di vite umane.
La mamma mi faceva attraversare prima i binari del trenino e poi quella pericolosa strada statale che dal lato opposto era delimitata da un lunghissimo filare di alti e grandi pioppi piantati a distanza di una decina di metri l’uno dall’altro che spuntavano imponenti dal terreno aventi sul tronco una protettrice e disinfettante striscia di calce e questi alberi erano collegati tra loro, lungo l’asfalto stradale, da una stretta striscia di terreno coperto con piccola breccia che serviva da marciapiede.
Nel tragitto per arrivare alla mia scuola che distava circa trecento metri mi univo con altri bimbi con la medesima destinazione; eravamo tutti con grande responsabilità e, coscienti del pericolo, camminavano in fila indiana. Il più delle volte la minuscola carovana era guidata dalla Sig.na Jolanda Baiocchi, la mia maestra, che abitando poco prima doveva percorrere quel tratto per raggiungere anch’essa la scuola e con quella presenza ci faceva diventare pulcini guidati dalla chioccia.
Ricordo che d’inverno, per il freddo, i ciuffi d’erba si ricoprivano di brina che faceva diventare bianchi gli steli e, tra il ghiaietto dello stretto marciapiede, era normale trovare modeste pozzanghere che si ricoprivano con una liscia, luccicante e sottile lastra ghiacciata.
Il mio percorso, sorvegliato a distanza dalla mamma, in quei giorni diventava giocoso poiché colpivo ogni fossetto ghiacciato con il tacco delle scarpe forse per far scaldare le gambe che erano scoperte per i pantaloncini corti ma soprattutto per vedere disegnarsi sulla superficie gelata sottili striature che quando si rompevano liberavano la poca acqua imprigionata al di sotto.