L’aria era sempre più calda ed appiccicosa. Aderiva alla pelle come una sgradevole pellicola. Il silenzio, l’attesa, mentre le luci si spegnevano come se qualcuno avesse premuto un interruttore. Da un momento all’altro si sarebbe aperto il cielo. Ma il vecchio eroe Ian continuava ad esistere e a muoversi nei caparbi angoli della sua memoria, gli stessi dove si imbosca sempre il tafano della passione che celebrava il suo ideale di grandezza umana, di cui riconosceva l’incarnazione vivente come nell’isola di Arturo, il romanzo di Elsa Morante. Dentro gli occhi aveva la notte come la luna, i pugni nelle mani, la voce profonda come il mare, la big energy, il carisma intenso mentre cantava Rain, She sells sanctuary, Love removal machine e tanto altro in un turbinio di pensieri ed emozioni. Il direttore d’orchestra di questa sinfonia rock grondante di sudore e passione era il suo cuore nell’emisfero boreale di un mese estivo. L’emozione non aveva voce, mentre tra i riff superbi della chitarra di Duffy si smarriva nel concerto dei suoni naufragando nei suoi ricordi esausti di brothers in arms. Pochi minuti e tra palco e realtà era diventato un tutt’uno, imbevuto di velocità, di emozioni, di ricordi, di applausi, di mani che si muovevano a ritmo cadenzato come un’onda in volo. L’adrenalina messa in circolo dalla loro musica ci aveva completamente anestesizzati. Sebbene non fossi famoso per le mie doti di ballerino, mia madre mi ricordava che venivo sempre invitato al centro del cerchio. Tante piccole città, paesi dentro una città, Pordenone, quartieri che diventavano paesi, in cui le persone per poche ore vivevano vite parallele a pochi centimetri di distanza le une dalle altre, tutte sotto lo stesso cielo dei The Cult, un culto, come in un applauso di stelle, in un viaggio che esaltava la gioia di vivere, di raggiungere il luogo tanto desiderato, un viaggio che era esperienza, un viaggio che era passione per una serata indimenticabile. La musica ha un impatto così forte sulle nostre emozioni e il rock insegna a farne buon uso. C’è sempre una libertà immensa che ricerchiamo nell’arrenderci al potere della musica e nel lasciare che la stessa ci trasporti laddove solitamente non ci avventuriamo. Che sia o meno un effetto placebo, ci tocca nel profondo, come uno strumento emotivo vicino a noi stessi, aprendo un varco con obiettivi diversi e ragioni differenti favorendone l’intensità e consolidando i legami a lungo termine. Nella Dodicesima Notte Shakespeare definiva “la musica il cibo dell’anima”. La musica ha un valore protettivo, non importa quanto siamo bravi, né se la suoniamo o la ascoltiamo in una piccola stamperga isolata senza la fantasia un pò folle che quel futuro consente alla velocità della luce.
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